Se per molti è quasi sconosciuto, il design di Israele mostra, invece, di essere vivace e promettente grazie all’apertura di nuove scuole, ai tanti giovani creativi e alla nascita di gallerie innovative e spazi dedicati .
Il mondo del design ha da poco scoperto di avere una nuova casa: Israele. In realtà nel piccolo Paese mediorientale la cultura del progetto moderno ha già una lunga storia, basti pensare ai numerosi edifici di Tel Aviv disegnati da progettisti formatisi al Bauhaus ed emigrati in Israele negli Anni ’30. Ma è soprattutto negli ultimi due lustri che il design sta assumendo sempre più importanza anche a livello economico, grazie alla nascita di nuove realtà museali dedicate, come il Design Museum di Holon progettato dall’israelo-londinese Ron Arad, a gallerie specializzate come la Paradigma Gallery di Tel Aviv e allo sviluppo di scuole di alto livello come la Bezalel Academy of Arts and Design di Gerusalemme. Se nell’arte israeliana spesso si notano decisi rimandi e allusioni al dramma politico che investe Israele, nel design, invece, prevale l’aspetto più giocoso e ironico. I designer vogliono stupire per la loro creatività mescolando spesso tecniche artigianali e nuove tecnologie. Come già hanno dimostrato durante la mostra Promidesign, curata da due importanti nomi del panorama internazionale come Vanni Pasca e Ely Rozenberg e allestita all’ultimo Salone del Mobile di Milano.
Indagando attorno a questo mondo, si scopre però che è difficile per i giovani designer riuscire a trovare aziende che realizzino i loro prodotti. L’eccezione che conferma la regola è quella relativa a Shahar Peleg e Oded Friedland di Monkey Business, che hanno saputo confrontarsi con le tecniche della produzione di massa e con il mercato internazionale, mentre la maggior parte delle nuove menti creative si autoproduce: dal disegno all’oggetto realizzato. Ci sono tematiche alle quali i creativi israeliani sono più attenti, come ad esempio la predilezione per gli oggetti legati all’ambiente familiare, giocattoli e prodotti per l’infanzia soprattutto, ma anche l’interesse per materiali riciclati e scarti cui dare una nuova vita, come nel caso delle composizioni luminose di Chanan de Lange, realizzate con i fanalini di coda della Ford Focus, e la sedia realizzata con palloncini sgonfi da Pini Leibovich. Alcuni designer prendono invece ispirazione dal mondo arcaico, dando forma a prodotti che dagli scarti del mondo industrializzato riproducono oggetti tradizionali. Come il pallet di truciolato che, nelle mani di Yakov Kaufmann, si trasforma in maschere che evocano culture antiche o ancora parabole dei fari di automobili che Ami e Dov utilizzano per produrre vasellame e lampade dal fascino tribale. Spesso anche le tecniche utilizzate richiamano il passato con produzioni interamente fatte a mano, proprio come si faceva una volta. Anche le scuole di design in Israele preparano i propri studenti con lezioni pratiche rivolte alla creazione di oggetti unici lavorati artigianalmente; come a dire che la professione del designer parte proprio dalla capacità di rendere vivo quello che prima era solo un’idea. Per questo le nuove leve, appena uscite dalle scuole, pensano a dare vita a nuove iniziative imprenditoriali, si riuniscono in studi di progettazione e creano nuovi brand.
È nata in questo modo anche la Urban Aeronautics, fondata da Rafi Yoeli, che propone una visione rivoluzionaria del trasporto urbano con un velivolo che assomiglia ad un’automobile, ma che vola, grazie all’utilizzo di eliche per il decollo e l’atterraggio verticale. Pensato anch’esso per risolvere il problema del traffico della grandi metropoli è un monopattino pieghevole, e quindi portatile, alimentato ad elettricità, nato dalla mente di Nimrod Sapir, e commercializzato dal suo brand MyWay Quick. Un’idea a emissioni zero per chi arriva da lontano e vuole muoversi comodamente in città o per chi è stufo del traffico cittadino.
Un altro tema forte che affrontano i progettisti israeliani è quello della natura e del rispetto ambientale. Gal Ben Arav ha realizzato, ad esempio, la Bamboo Bench, una panchina semplice fatta quasi esclusivamente con canne di bambù grezzo, un materiale molto versatile e facilmente rinnovabile. Lo Shulab Studio ha pensato, invece, a una light pot che risolve due funzioni: ovvero un vaso che contiene una fonte luminosa che aiuta a mantenere in vita la pianta che lo ospita. Le opere dal carattere artistico di Nati Shamia Opher puntano, invece, sulla forza della natura e in particolare sui fichi d’india che riescono a crescere anche nel cemento. Il designer ha perciò progettato un divisorio reso più accattivante esteticamente grazie all’inserimento del verde delle foglie della pianta grassa.
Tutto questo sembra dar credito alle tesi di Mel Byers, autore della The Museum of Modern Art Design Encyclopedia che, parlando del design israeliano, lo definisce «un segreto molto ben custodito, almeno finora. In realtà – conclude Byers – in Israele tutti conoscono la vivacità e la qualità della produzione di idee e manufatti di design. È il resto del mondo che deve ancora scoprirlo…».
di Benedetta Bagni