IL DESIGN (NON) È MORTO

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04 aprile 2014

Il nuovo design italiano ce lo racconta Chiara Alessi, curatrice e critica di design, nel suo primo libro.

“Sentivo l’esigenza di sfatare un pregiudizio: quello secondo il quale, finita l’epoca dei maestri storici e collassato il sistema delle grandi aziende, non ci fossero più designer italiani”. Chiara Alessi, autrice del saggio Dopo gli anni Zero. Il nuovo design italiano (Laterza, 160 pp, 12, euro) muove da questo assunto per realizzare una panoramica – “non esaustiva”, a detta delle stessa autrice – di quello che è oggi un mondo frammentato e fluido, ma certamente non morente come sostengono i critici più tranchant. “Il mio intento non era certo quello di voler tratteggiare un’apologia del fenomeno – spiega ancora la giovane saggista –. Non volevo dimostrare quanto fosse ‘fico’ il design italiano contemporaneo, ma piuttosto cercare di capire cosa fosse, perché è semplicistico affermare che è ‘morto’. Oggi, infatti, esistono molte più scuole, studenti, progetti e designer rispetto a un tempo”.

Di questo panorama ‘esploso’ e di difficile interpretazione la Alessi, con una cura quasi certosina, cerca di tirare le fila, per arrivare a una narrazione coerente della contemporaneità. Il risultato è una sorta di classificazione “animale” dei designer “dopo gli anni zero”, divisi in precise categorie concatenate tra loro: i “rizomati”, figli della rete in senso ampio, senza padri nel design, in cui convivono analogico e digitale; i “neo post” che raccolgono la tradizione dei maestri del design italiano, prestando attenzione agli aspetti sociali, politici e antropologici; i “soft pop”, eredi degli anni novanta, che immaginano oggetti gradevoli da toccare e con cui poter instaurare un rapporto anche estetico; i “sulpezzisti”, depositari di una conoscenza a 360° dei materiali, dei processi di produzione, dei meccanismi del marketing, dell’ingegnerizzazione e della comunicazione; i “messaggeri”, per cui non conta tanto l’aspetto funzionale, quanto quello metaforico degli oggetti; e, infine, i “metonimici ed empiristi”, i cui prodotti necessitano di un metatesto esplicativo, che a volte si sostituisce al prodotto stesso e lo supera in importanza.

“Nella mia testa questo libro ha già subito ripensamenti e riedizioni – afferma la Alessi –. Mi sono resa conto di molte più cose da quando l’ho stampato rispetto a prima. Alcune delle idee che avevo semplicemente non erano vere. Per esempio, ero convinta che le nuove generazioni stessero cercando di prendere le distanze dalle maestranze del passato, ma in realtà non è così e anzi oggi c’è una riscoperta dell’italianità”.

Quel “made in Italy” che tutto il mondo continua ostinatamente a invidiarci e che l’Italia, con altrettanta cieca ostinazione, non sempre riesce a salvaguardare. “Dall’estero esiste una curiosità quasi antropologica verso di noi, specie verso alcuni ‘superstiti’ della tradizione, mentre la maggioranza degli stranieri pensa che non ci siano più designer italiani degni di nota – conclude l’autrice –. La realtà è che oggi non ha più senso parlare di singoli nomi, mentre dovremmo focalizzare l’attenzione verso nuove aziende e realtà artigianali. Esistono infatti poetiche su cui si sta ricostruendo un’identità”.

di Luigi Piscitelli

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