Nella prima metà di quest’anno è ritornata in Italia con una mostra al Mart di Rovereto una delle più promettenti fotografe italiane, Olimpia Ferrari. Romana di nascita, nel 2004 si è diploma all’Istituto Superiore di Fotografia e Comunicazione Integrata; oggi vive e lavora a New York dove ha concluso gli studi nel prestigioso Bard College – International Center of Photography.
Quali sono le motivazioni che ti hanno spinto a entrare al Bard College-International Center of Photography?
Vivevo a New York da oramai due anni: questa città ha per me l’effetto di una calamita. Londra era un’alternativa fortemente possibile, avevo ponderato l’idea di andare a fare i miei studi al Royal College of Art, ma la filosofia di studi di Nayland Blake (fondatore del MFA Bard-ICP in Advanced Photographic Studies), nel cui studio avevo trascorso una mattinata intera per presentare le mie idee e il mio portfolio, mi aveva subito conquistato, ma qualche mese dopo mi arrivò la notizia che il comitato aveva accettato la mia application e avevo ottenuto la borsa di studio e la scelta fu quasi obbligata. Il programma della Bard si concentra molto sulla formazione del pensiero critico e sullo sviluppo di una capacità di dibattito creativo; la sfida maggiore è quella di ridurre il più possibile i limiti che l’artista pone su se stesso e sulle proprie possibilità creative: sembra una banalità, eppure rompere dei patterns non è così semplice. Durante il percorso mi sono trovata ad affrontare temi di interesse quotidiano e a capire che, come scrisse Proust “L’arte vera non sa che farne di tante proclamazioni, si compie in silenzio”.
L’esperienza a New York in che modo ha influito sul tuo modo di intendere la fotografia?
La continua presenza di culture, opinioni, modi di vivere, valori diversi dai miei e diversi tra di loro mi ha aiutato ad aprire ancor di più la mente, ricevendo molto dagli altri, ma anche da me stessa. Le possibilità e gli stimoli sono infiniti, si tratta solo di saperli selezionare e filtrare.
Su quali tipologie di macchine, strumenti di lavoro o tecniche ti sei concentrata maggiormente durante la formazione e a quali ti senti più vicina?
Ho usato il banco ottico 4×5 per le foto nelle chiese di diverse religioni conviventi qui a New York: è un formato che mi rallenta e coglie tutti i dettagli del luogo. Ma ho adoperato anche la Tashica t4 per molte immagini di vita vissuta che stanno diventando sempre più parte delle mie installazioni, e la Canon mark II 5D per le foto di città, perché con il digitale non c’è limite alla quantità e alla frenesia. Adesso uso sempre di più piccoli formati perché maneggevoli e spontanei.
Un commento sulle nuove scuole d’arte del territorio newyorkese…
Ce ne sono molte, e molte sono Università. Il Master in Fine Arts (MFA) della Columbia è molto interessante perché diversificato negli artisti che scelgono. Il Lower Manhattan Cultural Council ha un programma eclettico e veramente stimolante.
Quali sono le possibilità che una città come New York può dare a un artista?
Infinite. Non dà solo la possibilità di una carriera “da artista”, ma offre l’opportunità di trovare diversi modi attraverso i quali mettere in pratica la propria passione e professionalità. Ad esempio Ryan McGinley è stato il più giovane artista ad avere una personale al Whitney Museum e lavora molto anche nell’ambito della moda.
di Simone Mattia Lattanzio