“Quiproquo” è il titolo del docu-film che Elisabetta Sgarbi ha portato alla mostra del cinema di Venezia, dedicato al concetto di “Avanguardie” .
Viviamo in tempi in cui l’arte fatica a trovare strade nuove in grado di svelarci il reale, aiutandoci a costruire il futuro. È allora giocoforza ripensare a quei movimenti – le Avanguardie Storiche, le Neoavanguardie, la Transavanguardia e il Gruppo 63 – che nel secolo scorso hanno scosso coscienze e sensibilità, incidendo sulla storia, e non solo dell’arte. È questo uno dei motivi che hanno ispirato l’ultimo lavoro per immagini di Elisabetta Sgarbi, Quiproquo, presentato durante il 68° festival di Venezia nella sezione Controcampo italiano. Il film, che si avvale delle interviste del filosofo Eugenio Lio a vari intellettuali fra cui Umberto Eco, Achille Bonito Oliva, Franco Battiato, Vittorio Sgarbi, Rossana Rossanda, Enrico Ghezzi e altri ancora, in effetti parte da questa ricerca a ritroso per poi diventare anche altro. «Un modo di guardare il mondo che trascende l’avanguardia, pur fingendo di starci dentro» racconta Elisabetta Sgarbi. «Perché se si segue la parola per come si è trasformata nel suo luogo comune, si assiste a diversi quiproquo divertenti, ma anche interessanti». Ad esempio? «Il fatto che il luogo privilegiato dell’avanguardia, oggi, sia la scienza. È lì che si vivono le contrapposizioni che hanno fatto parte della sua idea di base: vecchio/nuovo, avanti/indietro, passato/futuro». Nel film la Sgarbi documenta questo tipo di percorso intervistando il cardiochirurgo Ottavio Alfieri e altri ricercatori che si cimentano rispetto alle suddette categorie, senza però sottrarsi all’analisi delle avanguardie musicali e letterarie, mentre secondo Ghezzi «… il cinema è sciolto dal giuramento verso le avanguardie, perché il cinema è sempre e comunque cinema del passato» cioè una forma artistica che si guarda più indietro, che avanti.
Secondo Vittorio Sgarbi, al netto della sua catastrofe umana e politica, il crollo delle torri gemelle – così come rappresentato dalla televisione – rimane la visione più avanguardistica di questo inizio di millennio. «La sua riproduzione per immagini lascia attoniti perché sottolinea la spettacolarità, semplice e brutale, del gesto» aggiunge la sorella. Possiamo allora dire che, paradossalmente, sia la televisione, la vera avanguardia contemporanea? «No, perché la televisione ha imparato a ragionare solo in termini economici o politici – continua la Sgarbi – anche se non può invocarsi il ritorno di una neo-neoavanguardia, perché è l’arte a dettare tempi, desideri e bisogni», non la contemporaneità. A però noi piace guardare avanti e alla domanda su cosa potrà voler dire la parola avanguardia fra un secolo, Eliabetta Sgarbi non può far altro che riconoscere che «la parola avanguardia sarà allora dimenticata». Meno male che rimarranno sempre i musei, a ricordarcela…
di Marco Lombardi
