È difficile darne una definizione univoca. Sensazione corporea, esplosione armoniosa di movimento. Traduce in gesti il dato musicale, dà forma e sostanza al suono. Ispira le opere di artisti come Norman Douglas Pensa e Daniele Pignatelli.
Secondo il filosofo Nietzsche “chi conosce la danza vive in Dio”. E forse è proprio così, perché la danza ha in sé qualcosa di ancestrale, che riporta l’uomo al contatto primitivo con il proprio corpo e con la propria anima. È inevitabilmente arte, una disciplina di tal genere: la sua carica eversiva non può essere trasmessa da chiunque (ma solo da pochi abilissimi ballerini), e tuttavia può essere trasmessa a chiunque. Lo stretto legame della danza con il mondo dell’arte è evidente se si indagano le opere di due artisti come Norman Douglas Pensa e Daniele Pignatelli. Le loro opere, esposte al MACS (Mazda Con-temporary Space) insieme a quelle di Lorenza Daverio, Silvia Rastelli e Laura Zeni, ben si collocano all’interno della tematica scelta per questa edizione, Be on the move, curata come le precedenti da Fortunato D’Amico e Barbara Carbone (in mostra fino al 30 marzo).
Il mezzo utilizzato da Norman Douglas Pensa è la fotografia. Scatti in bianco e nero, ritraggono ambienti silenziosi, paesaggi agresti, scenari naturali che appaiono come immobili e immutabili. E in essi, l’uomo, in tutta la sua solennità. Il soggetto scelto è una ballerina, che danza, come su un palco, negli spazi all’aria aperta. Ma qualcosa crea in noi un certo straniamento: non c’è movimento, perché l’azione è bloccata nello scatto. Così la fotografia che ritrae il celebre Thierry Deballe nell’atto danzante ci lascia attoniti nell’incoerenza tra soggetto e ambiente, come pure nello scontro che si viene a creare tra lo slancio della sua danza e la quiete circostante. E avviene che nell’immobilità del paesaggio, perfino la danza dei ballerini appare immutabile ed eterna. Un paradosso, o forse una rivelazione.
Diverso lo strumento scelto da Daniele Pignatelli, che ha dato voce alla danza attraverso l’uso della telecamera. La sua opera è un film, intitolato Filò. Sempre in bianco e nero, le immagini raccontano la danza umana in un felice parallelismo con quella della natura. Due riprese accostate, che interagiscono insieme: da una parte una ballerina del Cirque du Soleil che si muove su uno sfondo teatrale, dall’altra il mare, con le sue onde e la sua cadenza ritmica. I gesti umani ne imitano la suggestione, traendo dal mare l’ispirazione per una danza lenta, che mira all’identificazione totale – e reale – con il mondo naturale. Artificio e natura si incontrano senza scontrarsi: l’identificazione tra i due soggetti colpisce, ma l’armonia presente in entrambi attenua il senso di smarrimento iniziale.
di Chiara Martinoli