Curatore della Biennale di Venezia quest’anno è l’olandese Rem Koolhaas. Che per andare avanti fa un passo indietro e torna ai ‘fundamentals’.
La 14° Biennale di Venezia è innanzitutto uno straordinario racconto collettivo, appassionato e al tempo stesso malinconico. È in primo luogo la narrazione dell’essenza stessa dell’architettura attraverso i suoi Fundamentals – da cui il titolo della manifestazione –, i suoi elementi fondamentali: pavimenti, pareti, soffitti, tetti, porte, finestre, ecc. che ne rappresentano i topoi e gli archetipi senza i quali non potrebbe nemmeno esistere e dai quali, forse, troppo spesso gli architetti contemporanei si sono astratti per guardare più alla forma che alla sostanza. Una ricerca delle origini che Rem Koolhaas, curatore dell’edizione annuale e archistar di fama mondiale, ha voluto concentrare nella mostra Elements of architecture, straordinario viaggio alla ri-scoperta degli elementi che contraddistinguono la vita di tutti i giorni, allestita negli spazi dei Giardini. Qui è possibile ripercorre la storia globale di ogni elemento, esempi antichi, passati, presenti e futuri sono messi a confronto in stanze dedicate ciascuna a un singolo ‘fundamental’.
Ma la Biennale è anche lo straordinario racconto di una nazione, l’Italia che, a detta dello stesso Koolhaas è “emblematica della situazione mondiale”. “Possiede grandi tesori, ma non è in grado di sfruttare le sue potenzialità e questo è paradigmatico dello scenario globale” ha aggiunto in conferenza stampa l’architetto olandese. E una volta superato l’arco con le luminarie di Santa Rosalia che fanno da proscenio a Monditalia, addentrandosi nel labirinto dell’Arsenale – che da quest’anno si è arricchito degli spazi delle Corderie – si viene travolti da una massa magmatica, distonica e al tempo stesso filologicamente coerente di immagini, suoni e progetti che raccontano una storia fatta di occasioni perdute, mutamenti costanti e di un passato che non passa.
Absorbing Modernity 1914-2014 è il tentativo di raccontare tutto questo, a cominciare dal lavoro di Ana Dana Beroš, Intermundia, un parallelepipedo che al suo interno cerca di riprodurre la terrifica esperienza sonora e visiva dei profughi che sbarcano quasi quotidianamente sulle coste di Lampedusa. E di migranti – ma forse sarebbe più giusto parlare di ‘nuovi’ italiani – parla anche il prezioso lavoro di Matilde Cassani, Countryside Worship, un sorprendente ologramma che mostra la trasformazione di un piccolo paese emiliano, Fiorenzuola, in occasione dei festeggiamenti per la festa del Vaisakhi molto sentita dai Sikh, la popolazione di origine indiana che da anni ormai ha colonizzato il paesaggio rurale emiliano.
Di occasioni perdute narra Z! Zingonia mon amour di Argot ou la Maison Mobile e Marco Biraghi, la “città utopica” fondata dall’imprenditore bergamasco Renzo Zingone. Il racconto per immagini di quello che doveva essere un fiore all’occhiello del nord produttivo, che oggi è invece un classico esempio di degrado urbano, mentre un grafico ripercorre gli ultimi anni di storia patria e una luce artificiale che simula quella del sole – idea di una start up italiana – illumina il tutto. Ancora una volta genio e sregolatezza italici si fondono.
Italian limes di Folder è invece la cronaca minuto per minuto – in senso letterale – di come cambia il paesaggio italiano delle Alpi a causa del global warming e delle implicazioni che questo ha sui confini nazionali. Un braccio meccanico collegato a un gps traccia puntualmente i nuovi “bordi” su un foglio prestampato che mostra l’orografia delle montagne: una riflessione ecologica, ma al tempo stesso antropologica e politica di un cambiamento ormai inarrestabile.
”La nuova generazione di architetti trenta-quarantenni sta cambiando i vecchi cliché”, ha chiosato Koolhaas presentando la Biennale, in perfetta sintonia con lo zeitgeist contemporaneo. E forse è giunto finalmente il tempo di ascoltarli.
di Luigi Piscitelli
@L_Piscitelli