L’‘alieno del piano’ Giovanni Allevi ci ha parlato di classico, contemporaneo, accademia, musica e pittura.
Sono pochi quelli che hanno visto e che vedranno Giovanni Allevi con indosso giacca e cravatta. Anche quando sale sui palchi più seri del mondo per suonare la sua musica ‘classica contemporanea’, mette jeans, t-shirt e All Star, quello stesso look comodo e da ‘classico ribelle’ (come l’hanno definito e come si è auto-definito) che ha quando lo incontriamo alla fiera del turismo Bit 2013 a Milano, dove è ospite e dove abbiamo appuntamento. Gli daresti 35 anni (nessuna ruga e nessun ricciolo bianco, anche visto da vicino), ma ne ha 43. I suoi miti sono Bach e Chopin, ma ascolta anche Gershwin. Vive a Milano (in un bilocale dove il piano non ce l’ha), in bilico tra amore per la musica classica e – per questioni di età e formazione – inclinazione per la contemporaneità. “Mi sento molto vicino al concetto di contemporaneità” dice.
Come fanno a convivere i termini ‘classico’ e ‘contemporaneo’?
Più volte mi è stato obiettato che non possono stare insieme. Ma tra classico e contemporaneo non c’è ossimoro. L’errore è pensare che classicità significhi ritorno al passato, mentre vuol dire, per me, usare le formule della tradizione, inserendo dei contenuti tratti dalla contemporaneità. L’ho fatto con il mio concerto per violino e orchestra, nel nuovo album ‘Sunrise’. Voglio dire una cosa che non ho sottolineato altrove. Lo scorso ottobre è morto il compositore tedesco Henze che negli anni ’60 ha dato al termine musica ‘contemporanea’ l’accezione ben precisa di musica ‘complessa’, ‘d’avanguardia’. Ribalterei questo significato: ‘contemporaneo’ deve stare per ‘coevo’, ‘di adesso’.
Cosa pensa oggi del mondo accademico?
Io sono un prodotto del mondo accademico, non posso che dirne bene.
E i vecchi contrasti?
Ci sono degli aspetti negativi, che ho vissuto sulla pelle. Il mondo accademico vive di fede. Fede in Mozart, Bach e Beethoven; in Stockhausen e Luciano Berio. Tutto è già stato scritto da loro, perciò ogni tentativo di composizione da parte di altri è considerato un gesto irriverente. È come sentirsi dire: ‘studia dieci anni per imparare a comporre al termine dei quali non ti permettere di comporre’.
Questo discorso vale per lei anche in altri ambiti, come quello dell’arte?
Sì. Conosco degli artisti che sono stati osteggiati. Ti faccio i nomi: Giuseppe Veneziano il pittore e la scultrice Paola Epifani Rabarama, che per me sono due geni che stanno perfettamente interpretando il nostro tempo. Gli artisti però hanno un vantaggio: nel momento in cui le loro opere vengono quotate, entrano in un ambito di indiscutibilità. Per un musicista è diverso: diventare famoso e raggiungere il cuore della gente è considerato un demerito.
Come si risolve la questione?
L’artista deve essere ‘artista scandalo’, cioè rompere con tale meccanismo che blocca la creatività, che mette dei freni a mano utili solo a mantenere lo status quo. Ma figuriamoci se un artista deve mantenere lo status quo.
Ha mai tratto ispirazione da un’opera d’arte per una sua composizione?
Non in modo consapevole, ma può essere successo a livello subliminale. Se vedo un quadro di straordinaria bellezza qualcosa mi lascia.
Ha un artista preferito?
Quelli che ti ho citato mi piacciono molto, anche per un fatto di vicinanza. È bello sentirsi vicino ad altri artisti: ci si rende conto di essere parte di una scena, di un movimento, di un cambiamento. E poi mi piace il pittore del ‘400 Carlo Crivelli: nessuno disegna le mani come lui. Le sue immagini sono di una bellezza estatica. Ecco, ora che ci penso, io mi ispiro a lui e alla sua iconografia per le mie copertine.
Oggi è ospite alla Bit per promuovere la sua terra d’origine, le Marche. Cosa consiglia di andare a vedere?
Ad Ascoli Piceno, nella cattedrale di Sant’Emidio, c’è un polittico di Crivelli.
di Simona Carletti