Israele è un paese complicato: storicamente, politicamente, socialmente. Solo in cucina ha saputo scegliere (e continua a scegliere) la via della semplicità.
70: sono gli anni di storia di un paese che ancora oggi è difficile chiamare tale; e 70 sono gli anni in cui avrebbe dovuto formarsi uno stile israeliano in cucina. Pochi, qualcuno dice pochissimi, eppure – come è accaduto in molti altri settori a cominciare dal design – Israele non solo non si è arresa, ma ha saputo diventare una protagonista. E lo ha fatto proprio sfruttando il suo essere ‘complicato’ che in cucina è diventato, strategicamente, ‘semplice’.
La parola d’ordine a Gerusalemme, come a Tel Aviv e in tutto il resto del paese, è troppo: troppe tradizioni, troppe abitudini, troppi ingredienti, troppe religioni da mettere d’accordo. E allora non lo fa, semplicemente porta in tavola tutto e tutti, nel modo più immediato possibile: quasi volesse mostrare il volto quotidiano del suo essere.
Basti pensare al ‘baby cavolfiore arrostito’ di Eyal Shani (North Abraxas – Tel Aviv) o al ‘carpaccio di melanzana, thaini, sciroppo di dattero e pistacchio’ di Meir Adoni (Lumina – Tel Aviv) per farsi un’idea: vegetali serviti uno per uno o composti uno sull’altro per mantenere intatte le caratteristiche di ciascuno con il risultato, però, di creare un assaggio, vero come non mai, della terra da cui traggono origine. Quello che in altre regioni si cerca di codificare per portare nel mondo un’identità, Israele lo fa rispettando i mille volti del suo essere: come le persone convivono nelle città, ciascuno con la propria fede, le proprie origini, il proprio stile di vita così gli ingredienti dei piatti mantengono inalterato il loro sapore originario, esaltato dalla vicinanza con altri gusti, altre consistenze, altre cotture.
E lo stesso accade nella mise en place e nello stile dei locali: mai eccessivi, mai complicati, mai formali; ristoranti che in altri posti del mondo avrebbero una (o più) stelle, qui, dove la Guida Michelin non è arrivata, la classe non si misura in parametri, ma in sensazioni. Entrare nel giardino di Moshe Basson (Eucalyptus – Gerusalemme) o sedersi alla tavolata di Eyal Shani (nel suo locale Ha Salon – Tel Aviv) sono esperienze che in nessun altro paese capita di fare con così tanta leggerezza e ‘umanità’.
Sarà questo il segreto (anche imprenditoriale) di iniziative come Open Restaurants manifestazione gastronomica giunta alla sua terza edizione, in grado di coinvolgere decine di ristoranti a Gerusalemme e dintorni e migliaia di persone da ogni parte del mondo; e di aperture super chiacchierate come quelle di Chef Adoni che dopo aver lanciato due locali a Tel Aviv, ha portato il suo format anche a New York e Berlino?
Una cosa è certa: in cucina come nella vita bisogna saper guardare (e capire) le due facce della medaglia, perché il bene e il male, lo yin e lo yang e la semplicità e il caos possono contribuire a dare forma a qualcosa di estremamente interessante, anche dal punto di vista culinario ed economico.
di Barbara Carbone